Gianni Asdrubali: ritorno a Spoleto
Testo critico di Marco Tonelli
27 Giugno - 13 Settembre 2020
Galleria di Arte Moderna "Giovanni Carandente", Palazzo Collicola, Spoleto

catalogo surfing with the alien, palazzo collicola spoleto, 2020

Immagine copertina catalogo, Galleria di Arte Moderna "Giovanni Carandente", Palazzo Collicola, Spoleto
Anno 2020

A quasi venticinque anni dalla sua prima mostra personale a Spoleto presso Palazzo Racani Arroni (Tritatronico, a cura di Enrico Mascelloni), Gianni Asdrubali si conferma come uno dei pochi, se non forse l’unico artista in Italia che sia stato capace di spaccare in due la ricerca pittorica astratta, grazie a un processo di fusione a freddo tra due polarità opposte: da un lato la poetica espressionista, soggettiva, romantica e tragica di Emilio Vedova, dall’altro quella cadenzata, riflessiva e oggettiva di Enrico Castellani. Del primo mantiene l’irruenza del gesto sempre in prima persona, del secondo l’insistenza che sfiora la mistica di un costante e ossessivo dialogo tra il pieno e il vuoto, creando infine immagini e “figure” che non hanno più niente a che fare con queste polarità.

Nell’anno poi del Centenario della nascita di Giovanni Carandente, la mostra dedicata da Palazzo Collicola e dal Comune di Spoleto ad Asdrubali rientra idealmente in quella serie di iniziative che verranno promosse in memoria del famoso critico e sovrintendente, il quale della conversione di Palazzo Collicola in museo d’arte moderna fu uno dei protagonisti, divenendone il primo direttore nel 2000. Fu nel 1988 che Asdrubali (di cui la Galleria d’Arte Moderna di Spoleto possiede due opere) venne chiamato a partecipare alla sezione Aperto 88 della XLIII Biennale di Venezia proprio da Carandente, il quale osservò in catalogo: “La sua pittura è data in un’alternativa irrorata di tensione e energia, donde l’immagine può essere colta in positivo o in negativo. Rievoca sulla tela dipinta, in un certo senso, il fenomeno, che è della scultura, dei pieni e dei vuoti”. La sua consacrazione ufficiale nel sistema dell’arte risale a quell’anno, anticipata dalla partecipazione alla Quadriennale di Roma nel 1986 e raddoppiata dalla sua presenza, su invito di Flavio Caroli, all’Australian Biennale presso la National Gallery of Victoria, sempre nel 1988. Un percorso di presenze internazionali che ha trovato infine la sua ridefinizione nella prestigiosa retrospettiva organizzatagli nel 2001 dall’Institut Mathildenhöhe di Darmstadt a cura di Klaus Wolbert. Di questa vicenda artistica la mostra che viene qui presentata è una sorta di sintesi emblematica, aggiornando la storia di un artista che, ancora nel pieno delle sue acrobazie tra una dimensione e l’altra dello spazio pieno e del vuoto pittorico, si conferma come uno dei più importanti pittori italiani “astratti” (seppure il termine, del tutto convenzionale, non abbia più senso nel suo caso, pur avendo fatto parte della cosiddetta Astrazione povera di Filiberto Menna nei primi anni ‘80).

“Il surfing è l'azione generata dall'assenza. Ma questo surfing non è liscio ma a contrasto, è urtante, è un fuggire, andare via, per poi ritornare e sbattere nel suo stesso inizio, ma ogni volta che ritorna e urta su se stesso deforma e apre la struttura, trasformando la “figura” dell'immagine, che non è mai la stessa. L'interazione è la figura di questa lotta di questo contrasto tra il surfing e l'alieno”. Così ha risposto Asdrubali alla proposta/provocazione di intitolare la sua esposizione Surfing with the Alien (titolo preso da uno dei brani e degli album più celebri del virtuoso e geniale chitarrista statunitense Joe Satriani), espressione ironica e surreale che vuole comunicare l’equilibrio instabile, i salti vertiginosi e le acrobazie nel vuoto di una pittura dinamica che sembra fluttuare nelle dimensioni dello spazio generando nuove trame e sorprendenti traiettorie.

Ecco in sintesi il concept di una mostra nata come antologica di opere dal 1980 al 2020 e cadenzata in una serie di contrazioni elastiche di quanti pittorici tra una stanza e l’altra, una parete e l’altra, uno spigolo e l’altro dello spazio espositivo dedicato alle mostre temporanee di Palazzo Collicola, che mostra ancora i segni del terremoto del 2016. A terremoto Asdrubali risponde con un altro (non tellurico ma pittorico) di “figure” che comprimono le dimensioni di un virtuale spazio tridimensionale sulla loro superficie, quasi fossero aggrovigliate e intrecciate su se stesse anziché arrotolate come nella teoria delle superstringhe, la più avanzata tra quelle che vogliono spiegare la struttura intima dello spazio, della materia, dell’energia. Un parallelismo che non è “alieno” al gradiente di indeterminazione appunto quantistica nelle opere di Asdrubali.

Chiamato a esporre i suoi dipinti nel vuoto e nel pieno di muri e pareti, alcune delle quali ferite, attraverso aperture tra una stanza all’altra sorrette da vere e proprie strutture in acciaio di contenimento e messa in sicurezza, Asdrubali ha letteralmente aperto la cubatura delle stanze di Palazzo Collicola e annullato lo spazio, anzi ha aggiunto spazio pittorico a quello architettonico, fondendo i due elementi e uscendo dai limiti imposti normalmente alle opere dall’architettura. Non ci sono contenimenti possibili nella pittura di Asdrubali perché ogni limite viene assorbito nella cornice del quadro stesso che però propriamente cornici non ha, ma si compone di pezzi, frammenti, in un continuum di insiemi interrotti e tagliati, come appunto è evidente nella serie conclusiva della mostra, dal titolo Schegge del 2020, diretti discendenti dei Quanta di Lucio Fontana!

Veduta della mostra, Surfing with the alien, Palazzo collicola spoleto, 2020

Veduta della mostra "Surfing with the alien", Galleria di Arte Moderna "Giovanni Carandente", Palazzo Collicola, Spoleto
Anno 2020

Il percorso dell’esposizione ha un inizio che torna su stesso non come un circolo ma come una conflagrazione trattenuta nei limiti delle tele, delle lastre di plexiglass, delle tavole di legno, shaped canvas che non hanno niente a che fare con le ricerche hard edge di un Kenneth Noland nè con la flatness di Frank Stella negli anni Sessanta, ma con l’essenza del gesto esplosivo dell’azione pittorica, della mano che deve essere pensata prima di agire e prima di essere agita.

È questa la modernità di Asdrubali, è l’essere sempre qui ed ora, riannodando continuamente i filamenti che nel dipinto più vecchio in mostra (dalla serie Acidamente del 1980) sembrano uscire dalla geometria come un virus, per spianarsi come se i quadri fossero sottoposti a immani forze gravitazionali (in Aggroblanda del 1984, in Eroica del 1988 o in Malumazac del 1990) e per ritrovarsi poi a scontrarsi, sovrapporsi come calligrafie ritagliate e inscritte nel vuoto dei Tromboloidi realizzati tra 1988 e 1993. Il surfing è allora lo stare in bilico tra banalità e genialità, tra decorazione e struttura, tra caduta ed estasi, perché in fondo alla pittura contemporanea potrebbe non rimanere altra possibilità, per essere attuale e non solo mainstream e per mantenere la propria modernità, che sganciarsi dal concetto di contemporaneità. Un limite sottile questo posto tra le due condizioni, tipiche dell’arte del XX secolo, perché Asdrubali ha orrore di essere contemporaneo (il che significherebbe non avere futuro e non poter mai essere altro che fugace apparizione in attesa della prossima) e desiderio di essere invece moderno o, come ama spesso dichiarare, “anticontemporaneo”. Eppure dal Tromboloide esposto nella collezione permanente della GAM di Spoleto è scaturito un progetto digitale interattivo, immersivo e realtime dal titolo ZUMBER, creato dal gruppo di ricerca Oramide (Alessio Spirli e Cecilia Tommasini) che dimostra come la modernità anticontemporanea di Asdrubali possa essere del nostro tempo e aprire porte percettive adattabili a visioni elettroniche e virtuali.

Così i suoi dipinti prendono la forma irregolare e asimmetrica della scultura come in Stenka del 2018, opera che esce dai propri limiti pittorici per entrare in quelli dello spazio reale, senza offrire punti di riferimento, come accade invece in alcune serie modulari e centrate come il grande Stoide del 2005 composto di una teoria di quattro grandi tele bianche e nere.

Non ci sono certezze né rassicuranti disposizioni o lineari sviluppi cronologici nell’allestimento e nella sequenza di una mostra che vuole essere una radiografia istantanea e impossibile di un processo pittorico sempre in atto, vorticoso e per questo statico, centrifugo nei singoli grovigli di pennellate che aprono le trame dello spazio e allo stesso tempo accentratore, accerchiato e accerchiante.

Tale è la condizione dell’artista moderno in epoca contemporanea, epoca che non è necessariamente la sua solo perché a lui cronologicamente simultanea né però in questa epoca si deve sentire necessariamente estraneo o da essa escluso. Così come la musica di uno strumentista la si deve poter cantare in testa una frazione di secondo prima di essere eseguita, allo stesso modo la pittura nel suo farsi la si deve poter pensare, per quanto veloce sia il gesto con cui Asdrubali esplode le sue trame d’azione e di colore. Trame e cicli che assumono nomi diversi e di pura fantasia (Aggroblanda, Trigombo, Zeimekke, Azota, Stoide, Azotrumbo e via dicendo), ma che fondo sono tutti la stessa cosa, così come le particelle fondamentali (muoni, gravitoni, neutrini, bosoni, tachioni, positroni, assioni, divisibili in quark e leptoni, barioni e fermioni con le loro rispettive antiparticelle) sono tutte modalità diverse di energia e vibrazione ma non di materia fondamentale. Per usare le parole del divulgatore scientifico Richard Panek saremmo di fronte a “un circo quantistico, una fantasmagoria di particelle virtuali che si creano e scompaiono incessantemente”. 1 Così è l’incessante varietà di nominazioni e disposizioni delle strutture pittoriche dei cicli di opere di Asdrubali. Surfing with the Alien ci invita a fluttuare senza meta, verso un evento inatteso e sempre in agguato…

Lo spazio instantaneo di Gianni Asdrubali
Testo critico di Marco Tonelli
18 Aprile - 10 Giugno 2018
Museo Carlo Bilotti, Arancieria di Villa Borghese, Roma

Copertina del catalogo della mostra Lo spazio impossibile, Museo Carlo Bilotti, Aracierie di Villa Borghese, Roma, 2018

Copertina del catalogo della mostra Lo spazio impossibile, Museo Carlo Bilotti, Aracierie di Villa Borghese, Roma, 2018

“Io sono lo spazio”

Niente è come appare nella pittura contemporanea, se pensiamo ad esempio che anche artisti come Burri o Kounellis, che non hanno mai (o quasi mai) utilizzato tele e colori, amavano definirsi pittori a tutto tondo. Ma non si tratta qui solo di una questione materica o tecnica, bensì mentale e sostanziale. Niente è dunque come appare. Franz Kline, uno degli esponenti di punta della cosiddetta action painting (pittura d’azione) statunitense, solitamente messo a fianco di Pollock e de Kooning per via di una gestualità pittorica veloce e istintiva, ha sempre dichiarato pubblicamente che era solito riprodurre i suoi dipinti in grande e con molta lentezza, dopo averli disegnati su piccoli fogli di carta. Una sua pen- nellata apparentemente gestuale sarà quindi composta da tante altre costruite, controllate e pensate, in cui il bianco copre a volte il nero facendone emergere forme e strutture in togliere, a rappresentare per lo più visioni di ponti in ferro, locomotori e treni, grattacieli e architetture. Sostenere quindi che Kline sia un action painter è falso: fosse così, infatti, ogni pittore sarebbe un action painter, de Chirico o Balthus compresi!

Lo stesso discorso si applica alla pittura di Gianni Asdrubali, che definire d’azione e gestuale, segni- ca e postinformale, quasi inserendola in una storia del macrosegno o dell’action painting, la trascinerebbe nella linea ereditaria di Sanfilippo, Accardi, Vedova o Capogrossi, suonando falso.

Ma allora dove è la pittura di Asdrubali? Quale il suo luogo fondamentale? Difficile, intanto, trovare altri nomi di pittori da accostargli, soprattutto in ambito italiano, ma lo stesso si può dire per quello internazionale. Più facile semmai trovare nomi da opporgli per capire il suo linguaggio come un fatto pittorico e non come espressione, impressione o sensazione.

Intanto c’è il concetto dello spazio in Lucio Fontana, il quale nel 1967 affermava in un’intervista rilasciata a Daniele Palazzoli: “Il mio fare un buco era un gesto radicale che rompeva lo spazio del quadro e che diceva: dopo questo siamo liberi di fare quello che vogliamo. Lo spazio del quadro non si può rinchiuderlo nei limiti della tela ma va esteso a tutto l’ambiente”.2 Per Fontana l’infinito è ciò che gli fa bucare o tagliare il quadro: “una dimensione nuova corrispondente al cosmo”, avrebbe dichiarato a Carla Lonzi un anno dopo, poco prima della sua scomparsa. Dunque lo spazio per Fontana è oltre e intorno alla tela ed è infinito, tutto il contrario di quanto pensa e agisce sulla tela o su un muro Asdrubali, il quale sull’impossibilità di uscire dalla superficie del quadro ha osservato: “Non c’è spazio, piuttosto si tratta del suo annullamento, schiacciamento e annullamento delle dimensioni, delle velocità. Questo schiacciamento delle dimensioni nella frontalità della superficie tende a gettare l’infinito – tutto l’infinito del dietro – nel davanti e fuori dalla superficie”.3 Mentre a proposito dello spazio infinito: “Un’opera d’arte è tale quando il suo limite è illimitato, per cui non c’è bisogno di uscire dal ‘quadro’, ovvero di sconfinare dall’opera verso il fuori, perché il fuori è già nell’opera. Fuori dal limite dell’opera non c’è l’infinito, ma solo il quotidiano”.4

Insomma se Fontana crede allo spazio infinito e senza limiti, Asdrubali, più correttamente anche secondo le teorie delle conoscenze astrofisiche e cosmologiche più avanzate, lo ritiene finito e illimitato.

Se proprio volessimo individuare un ponte che colleghi Fontana ad Asdrubali, abbiamo a disposizione solo un tipo di opere di Fontana, che avrebbe realizzato tra il 1959 e il 1960, una serie tra le minori e meno battute: i Quanta, piccole tele rosse con un taglio ciascuna e dalle varie forme e dimensioni, che possono essere disseminate sulla superficie in modo libero e ogni volta differente. In tal senso Asdrubali sviluppa quel discorso, lo evolve, lo migliora, lo articola e lo adatta alla propria filosofia pittorica.

E sarà ancora per via oppositiva che potremo far scontrare la pittura “quantistica” di Asdrubali con quella geometrica euclidea di un suo coetaneo, l’americano Peter Halley, nato nel 1953 e rappresentante dei cosiddetti Neo-Geo degli anni ottanta (mentre in Italia e nello stesso periodo Asdrubali veniva inserito nei “Neo-Informali” da Flavio Caroli e nell’“Astrazione Povera” da Filiberto Menna). Autore di ripetitivi quadri geometrici dai colori artificiali, come celle, prigioni, uffici, condomini, reti telefoniche, condutture del gas e della luce, cavi elettrici, strade, Halley ne fa metafore della società attuale e del paesaggio contemporaneo di circolazione dei messaggi e delle informazioni.

Insomma, sia in Kline che in Fontana o in Halley avremmo opere che traducono immagini in metafore della realtà esterna.

La pittura di Asdrubali non porta con sé immagini e metafore della realtà, ha l’ambizione di essere indipendente da essa. Una volta l’artista dichiarò, in modo forse egocentrico e quasi facendo il verso allo Zarathustra di Nietzsche, ma corrispondente al proprio sentire: “Io sono lo spazio”, mentre in maniera più discorsiva, pur se non meno accomodante, avrebbe scritto: “L’arte non nasce dal profondo, il profondo non esiste, l’arte nasce direttamente in superficie dalla natura stessa. La profondità è nella superficie. La superficie è l’accadere dove tutto avviene attraverso quelle forze naturali da cui tutto dipende: la ne- cessità, l’istinto, il piacere. L’opera d’arte è natura in quanto è l’immagine di questo accadere”. Siamo ora sulla strada giusta per entrare nella dimensione della pittura di Gianni Asdrubali.

Veduta della mostra, Museo Bilotti, Aranceria di Villa Borghese, Roma, 2018

Veduta della mostra, Museo Bilotti, Aranceria di Villa Borghese, Roma, 2018

“Aurora del domani”

Tempo, spazio, immagine, struttura, colore, bordo: sono solo alcune delle parole chiave per aprire le porte dimensionali della pittura di Asdrubali, ma sono anche concetti fondamentali quando si parla in genere di immagini dipinte e di pittura. Nessuna opera pittorica ne è immune, né può fare a meno di tenere conto, in modo ormai del tutto consapevole, di quei termini o di ragionare in quei termini, eppure per Asdrubali il fatto pittorico sembra volerli affrontare in modo non solo personale e nuovo, ma rigenerativo e sostanziale, quasi a fare di quei concetti il tema stesso della sua opera. Ai quali andremo poi ad affiancare quelli di attrito, energia e quantizzazione, ma un passo alla volta.

Della concezione dello spazio nella pittura di Asdrubali abbiamo in parte già detto, o meglio ac- cennato. Se lo spazio per Fontana era cosmico, planetario e cercato “altrove, oltre la superficie”, al contrario per Asdrubali “lo spazio, il vuoto, è nella materia stessa, e la profondità non è al di qua o al di là della superfici ma nella superficie stessa”: un’affermazione che ha applicato alla sua pittura e condensato in una delle sue curiose ed enigmatiche sintesi terminologiche: la “concretezza zetrica”, fusione del segno e dello spazio nel “segno-spazio”.5 Sintesi terminologica che il pittore ha esteso a interi cicli di dipinti nel corso degli anni, dagli ottanta a oggi: Acidamente (1980), Aggroblanda (1983), Stregola (1984), Trasciada (1985), Bestia (1986), Aggancio (1987), Nemico (1987), Eroica (1988), Andabata (1988), Malumazac (1989), Megatutto (1991), Tromboloide (1995), Tritatronico (1996), Zuscanne (1996), Zetrico (1997), Zoide (2001), Azota (2003), Zunta (2004), Stoide (2005), Steztastess (2011), Zanorre (2013), Zagomache (2013), Maciada (2014), Zeimekke (2015)...

Nomi per lo più intraducibili, a significare un’identità indistinguibile e primigenia della sua pittura, come volesse definirne un campo di mattoni fondamentali. Lo stesso avviene ad esempio nell’ambito della fisica subnucleare, dove mesoni, adroni, muoni, gluoni, quark, bosoni e via dicendo compongono un mosaico di definizioni di scenari imprevisti e sempre di nuova scoperta. Ecco la differenza tra vedere lo spazio in Fontana e Halley e vederlo in Asdrubali: per i primi due sarà metaforico e riferito alla società presente o futuribile (tecnologicamente parlando), per il terzo autogeno e originario rispetto a una di mensione spazio-tempo, legato a una istantaneità che il filosofo Andrea Emo concepiva appunto come attimo presente, azione assoluta, “aurora del domani”, progettabile ma solo attuabile nel suo nascere e morire insieme: “La nostra azione è sempre determinata dalla consapevolezza che solo in questo preciso istante essa può essere agita... E che in altro tempo essa mai più potrà essere se stessa, essere ciò che vogliamo che sia”.6

Asdrubali non progetta infatti in anticipo come Kline, né riferisce il suo gesto nel vuoto al vuoto del cosmo di Fontana o a quello interconnesso dei meccanismi sociali e relazionali di Halley. Si entra nello spazio-tempo di Asdrubali solo se si è disposti a schiacciarsi nella sua “flatlandia”, su quella superficie compressa, bidimensionale o unidimensionale e istantanea dove avviene tutto, dove tutto è già avvenuto e dove tutto continuerà ad avvenire. Liberati da rischi di fraintendimenti storico-critici, capiamo allora che entrare nello spazio-tempo di Asdrubali è seguire in diretta le traiettorie della sua pittura e percepirne le strutture e le “figure” organiche fondamentali. Asdrubali è rimasto ovviamente affascinato dal recente libro del fisico Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, da cui posso così trarre una riflessione a proposito della teoria dei campi granulari, composti di particelle elementari come fotoni e quanti di gravità: “Questi grani elementari non vivono immersi nello spazio: formano essi stessi lo spazio. Meglio: la spazialità del mondo è la rete delle loro interazioni”. Appunto come dire: “Io sono lo spazio”.7

La concezione pittorica dello spazio di Asdrubali oltrepassa quelle viste finora da parte di altri artisti e si pone essa stessa come formazione di spazio, noncome traduzione, allusione, riferimento, simbolizzazione di esso.

Fondamentale comprendere la pittura di Asdrubali come vuoto rispetto a sé, come gesto funzionale a uno spazio nel suo farsi e nel suo essere e mai realmente inconscio o risultato di una azione o espressione di alcunché. Ovvio che dipingere significa agire su una superficie, meno ovvio ritenere che l’azione, il gesto non siano tanto la causa della pittura ma una conseguenza, una inevitabilità universale richiesta dalla condizione umana del pittore e dall’essenza stessa della pittura. Che appunto non trova la sua definizione nel gesto, ma nella concezione dello spazio che produce il gesto.

Ecco dunque aprirsi lo scenario quantistico di Asdrubali: cosa c’è tra il pensiero, lo stimolo mentale che produce il gesto e il risultato di quel gesto? Per Asdrubali questo movimento non è decidibile (appunto non programmabile né progettabile), è una sorta di azione in cui conosci il punto di partenza, osservi quello di arrivo, sai il perché, ma non cosa c’è nel mezzo né come si sia arrivati alla figura organica visibile sulla superficie della tela. È questo quel momento probabilistico che nella fisica quantistica viene previsto da equazioni, ma che non è possibile direzionare, perché c’è sempre un salto temporale e spaziale, piccolissimo (le dimensioni sono quelle di Planck, cioè circa 10-43 secondi e circa 10-40 metri), un’incertezza che non potremo osservare, comprendere, misurare. E non perché non abbiamo strumenti adatti, bensì perché è parte integrante e reale dei processi naturali e fisici a livello subatomico e quantistico.

La fisica relativistica e quantistica deve tener conto di questo salto, questo passaggio da una fisica macroscopica a una microscopica, che è anche quello che corrisponde al momento in cui impulsi elettrici delle sinapsi del nostro apparato neuronale si trasformano in pensieri, parole, azioni. La pittura di Asdrubali vive e pratica questo momento di incertezza relativa come fatto concreto, non eludibile, come vuoto previsionale e come forza carica e piena di energia, perché è a quei livelli così piccoli che si giocano partite energetiche immense (teraelettronvolt e velocità della luce), come ad esempio l’essenza stessa del tempo, dello spazio e dell’origine del mondo. Probabile, in conclusione, che Asdrubali dipinga il momento del salto dal pensiero al gesto pittorico che nessuno può dire, neanche il pittore che lo compie, quasi facesse esplodere sulla tela e sulla dimensione concentrata di essa quel punto indescrivibile e quantistico contenuto nel suo apparato mentale e neuronale.

Perché non affermare allora che la sua pittura sia un tipo di nuova figurabilità organica direttamente connessa con il pensiero, saltando in modo istantaneo ogni riferimento a simboli, metafore, illustrazioni, oggetti, figure? Più che analizzare la pittura di Asdrubali secondo le teorie della neuroscienza, potremmo invece vederla alla luce di concetti quantistici applicati ai processi mentali, come ha fatto il fisico, cosmologo e matematico Roger Penrose. Ad esempio: la pittura di Asdrubali si fa progressivamente nel suo farsi gestuale, o esiste già una struttura mentale o inconscia che la guida fino a raggiungere il proprio stato di entropia, di equilibrio? Il tempo impiegato per “completare” una sua opera permette all’opera stessa di svolgersi fisicamente, o l’opera è già svolta nello spazio-tempo della mente dell’artista e il tempo impiegato è solo una conseguenza accidentale, un effetto ritardato e secondario? Se la pittura di Asdrubali è istantanea, è spazio-tempo reificato, come si relaziona col fatto che ha bisogno di tempo e di spazio ordinari per manifestarsi? Questi e altri quesiti illuminano di luce inedita zone oscure finora impensate della sua pittura.

Asdrubali vuole aprire la materia pittorica, frantumare e spezzare la materia, vuole far esplodere la pittura: di qui il suo gesto deve essere veloce, immediato, senza passato e senza futuro, totalmente presente, a rendere concreto il vuoto tramite lacci, fasce o stringhe di energia che sembrano andare in loop sulla tela. Se osserviamo i nodi e le trame, i “campi granulari” dei suoi gesti pittorici, delle sue esplosioni, troveremo delle strutture che sembrano tornare, disfarsi e riprendersi, variare su un tema e farsi ogni volta tema a se stesse. Come se fosse possibile ritagliare un momento, un episodio, un pacchetto di segni (o meglio di quanti) in grado di dare il tono, il colore, l’unità minima di riferimento. Ecco appunto il pacchetto quantizzato, quella dimensione fondamentale, oggettivamente misurabile per ogni opera o addirittura per ogni serie di opere di Asdrubali, quella dimensione costante, quel quanto di energia che dà origine alla struttura complessa. Che percorso dai Quanta di Fontana alla pittura quantizzata di Asdrubali! Che salto imprevedibile!

Non si tratta più dunque di tradurre le tre dimensioni in due, di incorporare gesto, segno, vuoto alla superficie della tela, ma anche di “saper guardare i margini”, come ha osservato David Hockney a proposito della traduzione in pittura o in fotografia delle forme del visibile.8 Ecco allora i tagli della pittura di Asdrubali, la possibilità di negare direzioni di opere che possono comporsi di più parti tra loro accostate senza badare a direzioni, ma sempre tagliate ai bordi, come se la pittura continuasse al di fuori. Del resto il “limite senza bordi” con cui Asdrubali definisce i tagli spaziali dei suoi dipinti corrisponde in pieno alla conformazione dell’universo, che è appunto finito ma illimitato.

La pittura di Asdrubali è non solo otticamente tagliata ai margini, ai bordi, ma lo è anche fisicamente, nel senso che nel dipingerla ha dipinto effettivamente anche il vuoto a fianco della tela, dando luogo a figure interrotte che però si ricollegano in ogni senso in un vero e proprio multiverso. Lo ha dipinto nel dipingere la tela, senza poter lasciare ovviamente segni indelebili nel vuoto, ma agendovi come fosse la stessa superficie della tela. Lo si capisce se si ha l’opportunità di vederlo al lavoro: il gesto del pennello non si interrompe sulla tela ma, per completarsi e rendersi visibile sulla superficie, continua oltre. Non è un riflesso condizionato, un lasciarsi andare dionisiaco e compulsivo, è proprio una cosa strutturale: se il gesto non continuasse invisibile, non si farebbe segno visibile, non si farebbe “figura”, ma solo gesto da action painter finito dentro il limite del quadro. Per Asdrubali la tela non è propriamente un’arena, pur agendovi come se la sua azione sembrasse un duello, ma un campo di forze che confluiscono in essa e che non nascono in realtà dal gesto (in esso semmai si traducono), bensì da una struttura mentale e spaziale insieme, da un vuoto che sulla superficie si rende istantaneo, si fa spazio e tempo, senza perdere la sua caratteristica di autonomia e di originarietà. Un vuoto che è la massima concentrazione di energia possibile, quella che lo farà esplodere sulla tela unidimensionale come un Big Bang. Non è quindi un’uscita dal quadro la sua pittura, ma un’entrata in esso o comunque un ponte sospeso con quel vuoto che ancora si percepisce e che è stato “dipinto” dal suo gesto.

“Macchina del tempo”

La pittura di Asdrubali è una figura macroscopica, dunque, di un processo microscopico, di pacchetti di energia che hanno lasciato scie delle loro traiettorie. I dipinti di Asdrubali sono una sorta di “macchine del tempo” e di visori di energia: del tempo perché ci mostrano chiaramente quello del loro farsi, ce lo mostrano quasi nella loro istantaneità; di energia perché, se mettessimo dei sensori al di sotto della tela nel suo farsi, ogni opera avrebbe il proprio calore, la propria temperatura che farebbe tutt’uno con la struttura visiva dell’opera stessa. Potremmo in tal modo riconoscere le opere di Asdrubali semplice- mente riportando le misure di tempo ed energia impiegate nel loro farsi?

Ecco perché l’attrito delle superfici (tela, muro, plexiglas, ceramica smaltata, pvc...) è un valore di cui tenere conto. L’attrito cambia il risultato, perché richiede più o meno energia, più o meno tempo per compiere lo stesso gesto (che allora non potrà mai essere “lo stesso”) su opere di diverso supporto. Così come il colore utilizzato, che, combinato con l’attrito della superficie e quindi con la tipologia materiale di essa, sarà un colore apparentemente diverso pur essendo lo stesso.

Nessuno ha mai scritto realmente dei colori utilizzati da Asdrubali sempre in senso monocromatico e perché proprio abbia quelli e non altri. A domanda Asdrubali ha risposto così in merito alle opere più recenti, anche se vale per moltissime altre: “I colori sono blu ftalo, verde ftalo e rosso magenta. Sono quelli più scuri di tutti. Mi servono scurissimi per avere maggior contrasto quando vado a togliere nello scontro con la superficie. Così si passa nel momento del togliere dallo scuro alla variazione del colore più chiaro, fino a trovare il (quasi) bianco della superficie. Quello che è interessante, in questo caso, è il valore del timbro. Dallo scurissimo al chiarissimo”.

Ecco allora che il valore del timbro serve per bilanciare il bianco di fondo a cui Asdrubali arriva eliminando nel farsi dell’opera il colore col colore stesso. Capiamo meglio allora il senso dell’attrito, del calore e dell’energia, dei pacchetti di forza utili per aprire la pittura e tirar fuori il chiarissimo, in contrasto con lo scurissimo.

Sembra evidente allora il processo della pittura di Asdrubali, del suo schiacciamento su un’unica dimensione, della sua sovrapposizione di strati, della fusione di segno e gesto, forma e geometria, per cui il colore è spazio di sintesi, misuratore di tempo ed energia. I colori fondamentali di Asdrubali, almeno quelli citati nell’affermazione appena riportata, ricordano propri i nomi dei “colori” fondamentali dei quark (rosso, blu, verde), ognuno con il rispettivo anticolore del proprio antiquark (ciano, magenta, giallo). Seppure il termine “colore” per i quark sia fittizio, non trattandosi realmente di cromie, la somiglianza con la mappa cromatica fondamentale di Asdrubali ci dice molto in tal senso della sua opera. Del resto questo paragone tra la fisicità della pittura di Asdrubali e la filosofia della fisica quantistica credo possa essere ben sintetizzato con le sue stesse parole: “Io mi meraviglio, ma non della natura che è davanti ai miei occhi, mi meraviglio di me stesso in quanto natura, cioè degli atomi e delle particelle che mi agiscono... questa è la coscienza del limite. Il centro è la natura, il pensiero è parte di natura: particelle di sodio e potassio. Il pensiero non è lo spirito, è il corpo”. Non più il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, come era per l’euclideo Kant, ma il vuoto intorno a me e lo spazio dentro di me, dovessimo tradurre secondo il quantistico Asdrubali.

Rimane da risolvere però una contraddizione, o forse solo correggere un fattore di deformazione. Perché se la concezione dello spazio, del tempo, del vuoto in Asdrubali è assimilabile ai principi della fisica e della geometria quantistica e relativistica (tempo e spazio come unica dimensione, ma curva), la pittura di Asdrubali si dispiega solo e soltanto, vuoi anche per principio, su una dimensione piatta, su una superficie schiacciata (a differenza ad esempio dei piani incurvati di Lo Savio)? A tal punto anzi da esaltare in alcune serie di opere, composte da più elementi, gli angoli di una parete? Una buona risposta a tale quesito l’ha data Bruno Corà sottolineando la “sferica spazialità”9 della pittura di Asdrubali.

Ovvio comunque che dipingere non significa creare formule matematiche e scientifiche e che pensare la pittura, pensare in pittura, pensare dipingendo, non è pensare la struttura dello spazio-tempo e della luce o della gravità. Diciamo che Asdrubali si fa consapevolmente carico di questi elementi, senza volerli tradurre in figura (sennò torneremmo alla traduzione metaforica o illustrativa di Halley), bensì vuole incorporarne le potenzialità, come fatto successivo, di conoscenza, non di ispirazione. Semplicemente la sua ricerca pittorica ha dovuto guardare oltre le dimensioni psichiche e fisiche della pittura tradizionale, senza negarne l’essenza bidimensionale, senza rinunciare alla pratica pittorica in sé, all’uso del colore e del pennello, insomma radicalizzando quegli elementi fondamentali non per negare, azzerare e concettualizzare (come è in Buren o Castellani), ma per provare a rifondare la pittura nella sua contrattezza fisica, nei suoi collassi istantanei di materia, forza, gesto, energia, segno, immagine.

Per questo allora non ha bisogno di dipingere su superfici curve, perché chiede piuttosto all’osservatore di capire come sia stato possibile per il pittore dispiegare uno spazio curvo e complesso, granulare e quantistico su una superficie dipinta. Ancora una volta non illustra una teoria ma pratica una filosofia pittorica, definita via via nel corso degli anni da lui stesso o da critici compagni di viaggio come uno “spazio frontale” o un “muro magico” postinformale: era il 1978-79, periodo durante il quale ha risolto a mio avviso qualsiasi debito di formazione iniziale la sua pittura potesse avere, almeno in apparenza, con la gestualità violenta, di assalto e caos di un Vedova, per farsi struttura e definirsi in una forma ciclica e primordiale di esplosione e contrazione.

Se Flavio Caroli nel 1986 inseriva Asdrubali nel gruppo dei pittori astratti neo-informali, veicolandoli come “arma di difesa contro il maggior successo e la più perentoria affermazione mondana dell’arte neo-figurativa”,10 intrisa di “spirito grottesco e di rapina”, “immorale” come fu la Transavanguardia, sarebbe utile oggi a distanza di trent’anni verificare in che tipo di flusso pittorico ed esistenziale potremmo trovarlo coinvolto. Certo, ad Asdrubali piace molto sentirsi creatore di una “immagine senza padri, figlia di se stessa”, come ha confessato in un dialogo con Giovanni M. Accame nel 1987, eppure da qualche parte dobbiamo localizzare la sua azione, seppure individuale e autonoma, non essendo isolata e marginalizzata. Lorenzo Mango, cercando di scoprire il “luogo virtuale” della pittura di Asdrubali, osservava giustamente nel 1994 che il termine “astrazione” nel suo caso era fuori luogo e che tutto, specialmente nei Tromboloidi, doveva piuttosto ruotare intorno ai termini “esperienza”, “evento”, riconducendo però la sua pratica pittorica a quella di Pollock per una comune “tessitura strettissima tra fisicità, emozione, gesto, intuizione estetica, genesi della forma”.11

Insomma, seppure il pieno della ricerca di Asdrubali sia il vuoto, chi vuole riferire la sua opera alla scrittura critica ne deve cercare il luogo ideale, proprio perché è una pittura che si presenta estranea e al di là dei flussi formali etichettabili (postinformali, geometrici, astratti, gestuali), offrendo poco o per niente il fianco a comparazioni e paragoni di similarità. La difficoltà di agganciare Asdrubali a modelli e riferimenti specifici – potremmo affiancarlo a scultori coetanei quali Salvatore Cuschera (1958) e Roberto Almagno (1954) per le loro ricerche sulle strutture del vuoto e del pieno, mentre con Gianfranco Notargiacomo (1945) condivide la propensione dinamica per la velocità d’azione – proviene dal fatto che non vuole essere contemporaneo ma, come dichiarato da lui stesso in modo provocatorio e sincero allo stesso tempo, “anticontemporaneo”, quasi questo concetto possedesse una precisa finalità o fosse una conseguenza della sua opera. Anticontemporaneo, quindi , negando che la sua pittura d’azione sia pittura d’azione, che le sue installazioni di pitture nello spazio siano installazioni di pitture nello spazio, o che intervenire in un ambiente specifico significhi realizzare un’opera site specific. Piuttosto potremmo definire Asdrubali un artista premoderno, che probabilmente ha introiettato l’originarietà del gesto prima ancora che questo si facesse formula, stile, forma, geometria. Il fatto che alcune sue pitture possano leggersi in un certo senso come scritture abbreviate di energia o scie di costellazioni di stringhe, ci dice di immagini primordiali, atemporali, ideogrammi di fulminante sintesi, piuttosto che vere e proprie scritture alfabetiche testimoniali, epiche, rituali o profetiche.

L’ambizione dichiarata di essere autore di una “immagine senza padre figlia di se stessa” (Zarathustra spronava il discepolo a essere “capace di salire sulla tua stessa testa”) non dobbiamo intenderla dunque come sfrenata ambizione “celibataria” e onanistica da parte dell’artista, ma scoperta dei fondamenti del proprio agire, essendo la frase platealmente contraddittoria: il padre di questa figlia-di-se- stessa-senza-padre è infatti, ovviamente e necessariamente, il pittore che l’ha creata.

Il Multiverso di Gianni Asrubali
Teso critico di Marco Tonelli
13 dicembre 2014 - 12 gennaio 2014
Galleria Giraldi, Livorno

Scrivere di Gianni Asdrubali oggi significa dover fare i conti con concetti e categorie che ormai dovremmo avere interiorizzato ma che invece ancora non riescono a far parte del nostro bagaglio linguistico, del nostro senso comune né degli apparati critici a disposizione degli specialisti. Non credo infatti avrebbe senso attualmente utilizzare nel campo dell’analisi artistica, pittorica ed estetica in genere categorie come “energia”, “vuoto”, “velocità”, “struttura”, “forma”, “imprevedibilità” senza considerarne gli sviluppi nel campo della scienza e in particolare della fisica quantistica, dove questi concetti hanno aperto e stanno ancora aprendo nuove porte alla definizione dei fenomeni e di cosa sia realtà, materia, oggettività.La pittura di Asdrubali oggi è più che mai materia per scienziati quantistici, o almeno più di quanto non lo fosse trenta anni fa.

Il fatto è che nel campo della pittura e della critica dovremmo riuscire a saltare da un’orbita ad un’altra con più disinvoltura di quanto non lo si faccia comunemente. Dovremmo cioè non imparare a scrivere meglio ma a scrivere diversamente e questo lo si può fare solo accettando sfide nuove, leggendo ad esempio la forma pittorica ad altri potenziali di ermeneutica e di indagine conoscitiva. Dovremmo manipolare cioè secondo una matematica anaffettiva e impersonale alcune esperienze pittoriche che forse alcune decine di anni fa potevano essere ancora trattate in modo analitico o strutturale o scientifico ma che oggi hanno bisogno di altro per essere comprese, tanto più che se di mezzo si mette l’analisi scientifica questa si aggiorna in modo inarrestabile e niente oggi in quel campo è uguale a quello che era ieri.

Se dicessimo che Asdrubali in apparenza dipinge gli impulsi e le scariche neuronali che dirigono il suo gesto o che sono provocate da esso e poi integrate in tempo reale nella forma dipinta, avremmo già effettuato un salto di orbita. Se volessimo andare però ancora più in là e provocare un salto quantistico ad energie molto più grandi, dobbiamo provare a far qualcosa di diverso. Dobbiamo immaginare non più l’immagine dipinta da Asdrubali come collocata in un campo piatto ma in un vero e proprio tunnel di energia, una sorta di acceleratore di particelle dove le particelle sono sì le scariche nervose del pittore ma le forme visibili i fenomeni registrati, collisioni di particelle subatomiche, quelle stesse che hanno permesso negli ultimi decenni di arricchire l’elenco dei mattoni fondamentali della materia con quark, muoni, leptoni, bosoni di Higgs, neutrini e via dicendo. In questa ottica, ma solo in questa ottica, la pittura di Asdrubali è probabilmente una particella nuova, quella che spiega la consistenza delle altre che contribuisce a formare e che allo stesso tempo disintegra con la sua dirompenza.

Se cadiamo nella consuetudine dello spazio euclideo apparente e piatto, o anche tridimensionale, leggiamo infatti la pittura di Asdrubali come un aggiornamento nel solco della pittura astratta e gestuale di sua appartenenza, una sorta di action painting isterizzata e accelerata, in cui l’azione frenetica non impedisce affatto di riconoscere e creare una trama, una struttura, una rete connettiva modulare e ripetitiva. Come se avessimo aumentato a dismisura il voltaggio di un dipinto di Franz Kline e allo stesso tempo costretto il gesto a ritornare semplicemente su di sé, a ripetere un pattern visivo, a invadere il campo ben oltre i limiti della tela. A mio avviso questo discorso poteva essere forse legittimato anni addietro, ma oggi non è più possibile continuare a crederlo efficace nel caso di Asdrubali.

Il fatto che Asdrubali dipinga su una o più superfici piatte (tele, muri, sagome di legno) e/o collocate in spazi tridimensionali statici ha tratto e continua a trarre tutti in inganno. Il fatto è che neanche per gli scienziati che studiano le dimensioni nascoste della materia (ipotizzandone nel campo della fisica delle stringhe non meno di 11 fino a centinaia di tipi diversi) è facile riprodurre e rendere visibili quelle dimensioni. Già rappresentare su un foglio di carta un cubo di quattro dimensioni può risultare molto complesso e di difficile comprensione o almeno non immediata, eppure il cubo ha realmente quelle dimensioni nello spazio. Se fossimo capaci o allenati nel proiettarle oltre le due dimensioni del foglio di carta potremmo averne chiara la struttura, ma dobbiamo essere in grado di fare il salto proiettivo. Ecco il punto: dobbiamo essere capaci di fare lo stesso con la pittura di Asdrubali e leggerla in uno spazio pluridimensionale (un multiverso) che non è soltanto fisico ma anche energetico, psichico e a suo modo visionario. E per cui potremmo ancora non avere tutti i termini adeguati per descriverlo, ma la sfida è proprio questa.

La pittura di Asdrubali oggi, per chi non riesce a fare tale salto ma almeno ad intuirne le potenzialità, è nel migliore dei casi un’ipotesi in attesa di verifiche, come Einstein che pensò la teoria della relatività molti anni prima che fosse dimostrata. Ma per chi riesce a vederla nella sua irraggiante potenza energetica, chi riesce a seguirne le traiettorie non come segni ma stringhe di energia pluridimensionali e a vederne non la continuità con la tradizione astratta e gestuale ma piuttosto un’alterità radicale con essa, quasi una paradossale negazione nonostante la somiglianza di familia, allora riuscirà finalmente a osservarne tutte quelle inedite implicazioni psicofisiche e aperture su uno spazio mentale notevolmente accelerato nella pittura di Asdrubali, grazie a cui concetti e categorie devono essere ripensati. E da qui allora riprendere l’analisi.

Una chimica di contraddizioni compresse
Testo critico di Marco Tonelli
17 Ottobre - 14 Novembre 2006
Galleria Consorti, Roma

Gianni Asdrubali è uno dei rarissimi pittori che dipinge direttamente il proprio cervello, con i suoi fulminei flash di impulsi, le sue callosità superficiali, le sue erranze chimiche. E lo dipinge, o meglio ancora lo attraversa chirurgicamente, fissandone le strutture dinamiche in cristalli dai colori acidi.
Particolari di questa massa cerebrale pittorica sono quelle sue tipiche trame ingrandite (come maglie di tessuti di organi cerebrali), dalla prima all'ultima (Tromboloidi, Scatalandi, Tritatronici, Zetrici, Tetrazoidi, Zoidi, Azanta, Azota sono i nomi di alcune sue serie di opere realizzate dal 1992 ad oggi), apparizioni di strutture psicofisiche interne che gli permettono di percepire le sue traiettorie neuronali e le sue sinapsi in movimento.
Asdrubali dipinge dunque non "quello" che pensa, ma "come" questo pensiero preme dall'interno e prima che si articoli in un discorso, in un'immagine, in una figura, in una parola.
Così, la sua pittura coincide sempre con l'azione psichica e inconsapevole che la muove e di cui ne è radiografia cristallizzata, mentre il suo pensiero intorno e dopo questo impulso ne è la ripresa consapevole e, come dire, "post operatoria".
Pittura istantanea e compressa: è questa la base della sua poetica e di una pittura che è dunque processo puro e privo di retorica, glaciale e freddo come l'iniezione di una droga sintetica.

gianni asdrubali zoide 2001

ZOIDE

Installazione in spazio interno, pittura industriale su tela, 2001

Asdrubali é un pittore che saprebbe dar forma ai percorsi mentali e nervosi, alle scariche elettriche dei midolli vertebrali dei personaggi che animano le pagine del romanziere americano William Burroughs, al punto che opere come Diodiavolo, Acidamente, La Chimica di Satana o Malumazac, come Asdrubali ha intitolato alcuni dipinti realizzati tra il 1980 e il 1990, potrebbero benissimo essere fatti passare per i nomi di luoghi e persone improbabili di Burroughs (si vedano i Moscibecchi, il Grande Slashtubich o la Repubblica di Terralibera descritti ne Il pasto nudo), segno che la sua pittura è esperienza psicochimica in diretta, con tutti i suoi spazi di contraddizione compressa, il suo andare e venire, tra vuoto e pieno, assenza e presenza, gesto e inazione. Un viaggio sul piano di un'apparizione frontale, un impatto nudo, a tratti ipnotico, virtualmente monumentale a allo stesso tempo micro strutturale. Se si osserva la storia progressiva della sua pittura, si capisce come il processo di Asdrubali abbia fiutato e seguito, senza progettarlo né anticiparlo, sempre un unico principio: forze ed energie contrarie che premono da sotto e da dentro. Segno contro gesto, e poi spazio di tensioni contro vuoto.

In Asdrubali accade a proposito un paradosso: non tutto quello che "è" dipinto è ugualmente gesto e segno, non tutto quello che "non" è dipinto è assenza e vuoto. Nell'area colorata in cui si consuma l'iniezione del Crack sintetico, vale a dire nel corpo acido della pittura, si contrastano traiettorie ambivalenti, quelle che tagliano e quelle che riempiono, quelle che segnano e quelle che accolgono, quelle centripete e quelle centrifughe. Non ogni segno viene dal gesto e non ogni gesto viene dal segno, mentre intorno vive, come fosse un grande animale silenzioso, un immenso spazio bianco infinito, che si contrae solo nel punto in cui esplodono quei grovigli di segni e gesti.
Un immenso spazio bianco che soffre, sente, aspira a questo campo di tensioni e di impulsi, dove deflagra un permanente vivere dionisiaco della durata d'un attimo.
Certo, questo attraversare le contraddizioni interne di un processo di pensiero, questa forma intossicante di flussi neuronali agganciati ad una temporalità istantanea, rischia di produrre derive di senso da parte di chi osserva, interpreta e giudica. Se per Asdrubali è tutto cosìchiaro, perché esperienza diretta di un fare sempre in corso d'opera, per chi è esterno a questo momento epilettico, a questo elettroshock pittorico, c'è il rischio di non saper avvertire il corto circuito. E di scambiare la sua pittura per action painting, per ripresa informale, per costruzione decorativa, per una forma semplicistica di "essenzialismo" pittorico.

gianni asdrubali zoide 2001

TETRAZOIDE

Pittura industriale su tela
Dimensione 240 x 210 cm
Anno 2001

Il fatto è che, come mi dice Asdrubali, prima che ogni discorso possa aprirsi sull'opera, bisogna che l'opera diventi "freccia" e colpisca cosìil piano frontale dell'immaginazione, della vista, del pensare. Il punto è dunque questo: centrare il bersaglio, far apparire il senso nascosto di un processo, tutto il resto viene a seguire, magari guardando di lato, anche se non si può garantire che l'interpretazione dello spettatore percepisca e partecipi dell'intenzione frontale dell'autore.
Se questo fa parte del gioco di chi fa l'opera (l'artista) e chi la riceve (lo spettatore), nel caso di Asdrubali diventa un problema di sopravvivenza. Non capirne l'impulso vitale, l'energia interna, potrebbe significare ucciderne il senso, sprecarne la fatica. La sua iconografia pulsionale, cosìriconoscibile, è il suo messaggio, non c'è altro.
Se ci si può trovare d'accordo sul fatto che le sue opere possiedano un'invadente forma di bellezza ed eleganza, di pulizia e di equilibrio, tanto che lo schizzo della pennellata sul bianco della tela sembra virtualmente accompagnato, almeno con gli occhi avidi del pittore, nella sua traiettoria casuale, è rischioso fermarsi solo al livello formale. Anche se è certo che è sempre la forma a determinare il valore di un'opera ed è l'evidenza della forma l'unica verità a testimonianza del processo psichico che è per lo più ignoto.
Ma la forma è simultaneamente l'unico limite reale al senso dell'opera stessa.
La forma come rivelazione e nascondimento del dipinto quindi, come suo inizio e fine, insomma come suo limite naturale.
E' proprio nel senso del limite che accade la pittura di Asdrubali ed a questo proposito Asdrubali cosìsostiene: "solo rinchiuso in una gabbia sei in grado ed hai il desiderio di pensare la libertà, fuori della gabbia non più. E' quindi solo facendo esperienza del limite che puoi immaginare e vivere l'illimite", vale a dire, è solo nell'esperienza psichica del quadro che si può vivere quella comunicativa e relazionale dell'uscita immaginativa dalla sua gabbia spaziale, un'uscita che in pratica è il momento in cui l'opera diviene pura forma, bersaglio centrato dalla freccia e aperta cosìalle interpretazioni.
Insomma, il limite fisico dell'opera è l'opera stessa, non il riquadro della tela su cui è dipinta, non il muro che la contiene, non l'architettura che viene occupata. L'opera è un limite fisico perché contiene un illimite mentale, è tutto ciò che potrebbe essere fatto in un breve lasso di tempo, in una porzione di presente, di cui è apparizione istantanea, che però ugualmente non ha tempo, sostiene Asdrubali, perché l'opera è sempre e per sempre.

gianni asdrubali malumazac 1994

MALUMAZAC

Pittura industriale su tela
Dimensione 130 x 160 cm
Anno 1994

Nella sua poetica dello spazio e della forma perciò passa la concezione metafisica dell'opera d'arte, vissuta come momento elettivo, come infinito condensato in uno spazio e in un tempo dati.
Ed è bello sentire parlare ancora dell'opera come dell'unico momento irripetibile in cui l'arte trova senso, proiettandosi in una dimensione che trascende, o crede di farlo, un limite normalizzante.
La sua pittura mi emoziona dunque perché funziona al di là di ogni contesto, perché si crea il proprio luogo elettivo senza eleggere nessun luogo in particolare. E' decisamente il valore dell'opera pura contro il survalore del sistema dell'arte e della transestetica, quello cioè concettuale e postconcettuale, che trasforma in "opera d'arte" o in "installazione" qualsiasi "opera" posta in un museo, in una galleria, in una rivista, in un catalogo. Un sistema che produce più che altro certificati di autenticità su ipoteche (per lo più già scadute) di opere d'arte.
E' per questo che apprezzo della sua pittura una certa autonomia folgorante, che la fa vivere nel pieno della sua aggressiva e felice visibilità, senza dover articolare un discorso per giustificarla, impostare una grammatica per renderla leggibile, fissare delle regole per legittimarla, pur se la poetica di Asdrubali si articola dialetticamente in una fitta trama di pensieri (evidente nella serie di riflessioni ed interviste fatte nel corso degli anni), in cui la teoria coincide con la forma, senza che si percepisca l'obbligo di un progetto a priori.

Marco Tonelli

Gianni Asdrubali Anticontemporaneo Eroe Non Ibridato Surfista Antigrazioso
Testo critico di Marco Tonelli Dicembre 2010
Collezione Permanente Arte Contemporanea - Liceo Scientifico A. Bafile - L'Aquila

Il nodo di Gordio è un mito che racconta di un nodo talmente stretto e intricato che chi l'avesse sciolto sarebbe diventato re dell'Asia. Alessandro Magno riuscìnell'impresa tagliandolo di netto con una spada. Anche l'arte contemporanea la si può vedere come un nodo da sciogliere: quando inizia? cosa è: un periodo o un genere? chi è un artista contemporaneo? Poiché tutti vogliono essere contemporanei ibridati con tutto e nessuno vuole rimanere indietro, si sono escogitate in anni recenti varie tipologie di suffissi della contemporaneità: iper, super, post, trans e via dicendo. Asdrubali ha sciolto il nodo prendendo la strada più breve ed efficace: tagliandolo. Ha insomma reciso il nodo gordiano della contemporaneità con i fendenti spietati della sua pittura, dichiarando di essere anticontemporaneo e coniando lo slogan "Anticontemporaneo è un po' sporco ma fresco".

Il problema dei suffissi della contemporaneità non si è complicato con Asdrubali bensìrisolto: l'essere anti- non significa aggiungere una nuova dimensione all'essere iper, super, post, trans (che tutto sommato si perfezionano l'un l'altra) ma negarle in blocco. Boccioni definiva Antigrazioso un tratto tipico della modernità di inizio XX secolo, violentando l'equilibrio classico dei corpi per ritrovarne uno nuovo nelle forme veloci e frammentate della contemporaneità di allora. Quel suo essere anti- finirà per dare forma al tratto più caratteristico di un movimento che non solo voleva essere contemporaneo, ma proteso verso l'avvenire: il Futurismo. Prima di essere contemporanei bisognava poter essere anti-. In nessuno dei più abusati suffissi della contemporaneità ibridata (iper, super, post, trans) si nasconde una critica ad essa ma tutti sono suoi complici, proiettati ad esaltarla, a farle travalicare il tempo per stabilire un record che oggi può solo essere stabilito dalle quotazioni in borsa delle opere d'arte, ma non dai valori di critica, poetica od estetica. O almeno questo vale per tutte quelle opere che vogliono essere le più ambite sexy star dello scenario contemporaneo. Asdrubali dunque è anti- come Boccioni, perché combatte ciò che è grazioso, trendy, patinato, contemporaneo. E nel far questo afferma di essere senza tempo, di stare prima di esso, anzi al suo inizio e perciò di essere collegato direttamente al futuro. Asdrubali allora è un eroe anticontemporaneo perché mentre dipinge (solo quello, senza ibridazioni) disegna già il futuro della sua immagine, che ha un vero e proprio codice genetico inscritto in una gestualità feroce e priva di retorica. Asdrubali, surfista antigrazioso, con la forza distruttiva e generativa dello spazio e della superficie, costruisce la propria architettura sulla cresta di un'onda, dove tutto scivola via inafferrabile, indefinibile e instabile: perciò anticontemporaneo, nel senso in cui è insensato affermare di essere contemporanei.

gianni asdrubali steztastess 2011

STEZTASTESS

Pittura industriale su muro
Museo Permanente di Arte Contemporanea - L'Aquila
Dimensione 800 x 320 cm
Anno 2010

Marco Tonelli