Gianni Asdrubali.
La pittura come forma della complessità (1978 - 1990)
Testo critico di Claudio Cerritelli
Anno 1990


1. Muro Magico, gli stimoli iniziali della pittura

Nella dimensione della parete bianca la pittura di Gianni Asdrubali fissa la sua prima, fisica, identità. C'è ragione di credere che un’installazione pensata nel 1978 e realizzata l'anno successivo, La pelle della pittura, contenga gli umori improvvisi e le cariche di energia espressiva che fissano in modo emblematico il linguaggio dell'artista sbilanciato oltre la superficie prima dell'avventura complessa e vertiginosa degli anni ‘80. L'idea iniziale è il coinvolgimento dello spazio ambientale come supporto totale della pittura, un'apertura di sensi cromatici esercitati verso l'esterno fuori dai limiti della tela, considerato un momento strutturante della percezione della stanza ma decisamente insufficiente a restituire il respiro totale dell'ambiente.

Asdrubali mette subito in evidenza una pulsione che si impadronisce dello spazio intatto della parete, anzi delle pareti, sovrapponendo gesti a gesti, colori a colori, in tempo di costruzione dell'immagine totale che risulta essere la vera natura dell operazione, il suo fondamento linguistico. Si tratta di moltiplicare la superficie, dunque, intensificare i segni, sovrapporre uno stimolo all'altro, congiungere le sensazioni alle idee, le misure dello spazio vuoto all'infinito continuità del dipingere, fuori di sé e di un progetto rassicurante. Nella fissità del Muro magico Asdrubali oscilla tra visibilità dell'intreccio gestuale e indivisibilità delle pareti, dei supporti, delle scritte che non hanno più nessun significato ma solo la volontà dismaterializzare lo spazio, dentro e fuori, davanti e dietro, verso un punto non misurabile in cui convergono tutti i materiali messi in gioco. In questo senso la “stanza artistica” si pone come antefatto linguistico importante nel percorso di Asdrubali, sintomo di un comportamento sull'opera che rivive ad ogni istante l'energia dell'azione improvvisa della pittura stratificata di pensieri anche quando decide di essere essenziale, radicale, ridotta ai minimi gesti. Asdrubali accetta la contraddizione come molla indistruttibile del linguaggio, in questi anni di preludio formale, dipinge e cancella, costruisce e distrugge, parte dalle idee dell'arte ma preferisce trasformarle in emozioni pittoriche allo stato puro, energie vaganti che si concentrano le opere, come per incanto, incantate su se stesse. Dalle complesse interferenze dell'installazione l'artista mette a fuoco un interesse per la superficie che non smarrisce magia e immaginazione spaziale, visione istintiva e contrasti violenti del segno. Lo stile personale di Asdrubali è già dato, si tratta di liberare tutte le possibili traiettorie che consentono di rintracciare nel suo percorso una persistenza di pensieri pittorici, non soggetta al mito di una coerenza linguistica come garanzia delle diverse tensioni in atto.

Prova ne sia un'opera di nuovo magica dipinta tra il 1979 1980, “Diodiavolo” che riprende quanto di coinvolgente, stratificato e dinamico era suggerito nell'installazione precedente. Alla pelle della pittura viene conferita una densità ed una vibrazione accentuata dal suo essere superficie in cui esplode lo spazio virtuale dell'ambiente. E’, questa, un’opera di grande energia, un momento di sfida solitaria alla dialettica fin troppo raggelata del bianco-nero che Asdrubali sente in modo aggressivo e vitale, pittorico e costruttivo, al di là dei consueti schemi percettivi di carattere psicologico. C'è persino una durezza plastica che le stratificazioni e gli spessori materici suggeriscono come possibilità tridimensionale, quasi come memoria di quel tumulto di materie che va ricomponendo: spazio pieno, serrato, impenetrabile, decisivo per capire i successivi stati espressivi. Uno dei momenti ancora interni a questa trasgressione del segno e dello spazio è compreso sotto il titolo “Acidamente”, una serie di tempere su carta eseguite d’istinto tra il 1980 e il 1983. Il segno vibra, si intreccia, sfibra ciò che vorrebbe farsi struttura e tale non può essere, se non in relazione con lo spazio bianco della superficie. Lo sbarramento avviene con l’assieparsi immediato e violento di minimi filamenti di segno che si attorcigliano intorno ad un proprio andamento formale, stringendo d'assedio lo spazio, elettrizzato da una simile quantità di vibrazioni. Asdrubali spinge al massimo l’emozione del bianco, come luogo in cui l'immagine si contrae e si espande per trattare lo spirito dell’aria, le forze ignote della forma, il miracolo invisibile della luce che scaturisce tra segno e segno. E’ un capitolo suggestivo che rimane autonomo tra le diverse immagini scaturite negli anni ottanta, una mirabile condizioni di ricerca che sta sospesa tra un periodo di eversione spaziale e il successivo clima di aderenza alle superfici dilatate della pittura: un breve ma intenso miracolo di segni acidamente intensi.

gianni asdrubali

ACIDAMENTE

Pittura industriale su tela
Anno 1982

2. Verso l'aggancio di nuovi ritmi , tra il pieno e il vuoto

All'interno della nuova situazione romana che intorno al 1982 va riproponendo una coscienza pittorica disegno astratto, Asdrubali recita un ruolo complesso che non può essere interpretato attraverso la chiave dominante della “riduzione”. Certo si tratta di sottrarsi al profluvio di lingue pittoriche che prendono d'assalto l'attualità con varie ginnastiche espressive, quindi la questione è quella di smorzare le forme di racconto della superficie verso una maggiore sintesi. Riduzione vuol dire in questo caso che il quadro deve essere denso, compatto, ricco di energia. Se la pittura si affida minimi interventi disegno e di colore non vuol dire che riduce il raggio d'azione, anzi moltiplica le sue forze sulla base di energie elementari, pure, assolute, in grado di rendersi anche nei casi in cui apparentemente non c'è né struttura né colore.

Le radici astratte sono per Asdrubali gli strumenti per attuare la complessità dell'immagine, non c'è il rifiuto di questi termini storici ma esigenza di sganciare il proprio lavoro da teorie di gruppo e da giustificazioni di ordine generale. La partecipazione a mostre collettive, intensa dai primi anni ottanta, è attraversata da contraddizioni che rivelano lo stato inquieto di una identità alla ricerca della sua propria autonomia. I contributi più interessanti sono di Simonetta Lux che parla già nel 1982 di una nuova attrazione, “una nuova invenzione decondizionata e radicata”, dii Flavio Caroli che sottolinea nel 1983 un senso di astrazione magica, e di Filiberto Menna che segue in diverse occasioni il lavoro dell'artista mettendo a punto una lettura che evidenzia la costruzione del vuoto. “Io costruisco il vuoto” ha scritto Asdrubali nel 1984, “si può dire che la mia pittura è piena di vuoto e il vuoto è il solido come il marmo”. Queste affermazioni fissano una verità pittorica che comprende l'antica e usurata dialettica fra astratto e figurativo da un punto di vista nuovo, dinamico, interessato ad esprimere la sintesi effettiva dell'immagine più che la separazione degli elementi che la compongono. Il concetto di vuoto è carico di implicazioni, è pieno. Il colore funziona come luminosità che invade sia le parti dipinte sia quelle non dipinte. E’ proprio la parte fisicamente non dipinta che diventa pittura, questo aspetto è fonte di infiniti aggiustamenti, dosaggi, miracoli di equilibrio che accompagnano l'artista lungo il dramma perpetuo della superficie. Con il ciclo intitolato Aggroblanda si avvia quella vertiginosa sequenza di azioni e contrazioni pittoriche che vanno organizzando uno spazio di tensioni e di contrasti giocato sui gesti simultanei, catturati appena per un attimo e fissati sulla tela con le pulsazioni automatiche. Alcuni quadri sono vissuti a tutto campo, altri accettano la dimensione del bianco come stato anteriore al colore, margine, contorno, sfondo chiaramente percepibile. Si dà sempre struttura ma essa è contemporaneamente nascosta, occultata nel farsi concreto dell'immagine che non rinuncia alla norma dello squilibrio come rovesciamento e cancellazione del progetto possibile. Asdrubali tenta anche la rottura della superficie con alcune forme sagomate che dialogano con il bianco della parete in bilico su se stesse oppure con forme tridimensionali (torri, tsumani, zudrunbo, banflo, 1985) che rendono plastico il concetto di pittura non riuscendo mai a sottrarsi alla superficie dipinta, alla magia della sua pelle strisciata di linee in ascesa, in discesa, trasversali, metamorfiche.

gianni asdrubali

AGGROBLANDA

Pittura industriale su tela
Anno 1984.

3. La figura del pittore in tensione nello spazio

In un autoritratto fotografico osserviamo l'artista con in braccio un cilindro dipinto e sullo sfondo una grande tela traversata dagli stessi segni, scultura che entra nella pittura come se si trattasse di un unico movimento prolungato nello stesso campo d'azione. L'atteggiamento dell'artista beffardo e aggressivo, è tutt'uno con lo spirito della pittura. In un’altra foto, pubblicata sulla copertina del catalogo di una recente mostra milanese, Asdrubali accentua il dinamismo della sua figura con un balzo a gambe aperte e a pugni chiusi, in forma sarcastica e violenta, come si addice ad una pittura che va imponendosi come scontro duro e veloce con lo spazio. Questa riflessione intorno ai ritratti fotografici non sembri utile, è un aspetto figurale che fa comprendere il dato fisico e corporeo del dipingere, il corpo a corpo tra il pittore e la superficie. D'altro lato, un bel filmato di Giacomo Verde sui movimenti di questo rapporto esclusivo di Asdrubali con la parete, la tela libera dal supporto, fissata sul muro, aggredita con brevi e decisivi scatti, gesti, percussioni, agganci a questa unica possibilità di senso che è la pittura.

“L'aggancio è un punto limite” - scrive l'artista - “tra presenza e assenza, la verità di oggi (1984) nasce dalla coscienza di sapere di esistere solo in una zona marginale e in un equilibrio instabile e precario nei confronti del mondo”.

In Jagranna (1985), Male (1986), Antrax (1986), Matto (1986) e, appunto, nella serie Aggancio (1986) si afferma uno stile personalissimo, duro, agile e scattante che non è possibile ricondurre ad un arcaico uso della geometria.

Si tratta di un rigoroso ed istintivo sistema di geometrie curvilinee tracciate con sicurezza nel divenire dello spazio chiuso, serrato, costruito con forte determinazione, senza che alcun indugio pentimento possa metterlo in dubbio.

Qui si capisce che la teoria e l'ideologia dell'astrazione cosiddetta “povera” proposta da Menna, può solo in parte orientare la lettura del lavoro di Asdrubali; del resto il critico non ha mai negato la complessità della posizione individuale degli artisti, soprattutto di quelli interessati ai medesimi problemi tra astrazione e riduzione.

Il rifugio della teoria critica è in ogni caso salutare per un pittore che vuol venire allo scoperto senza nascondersi dietro la protezione del critico teorico e l'immagine quello che conta sembra dire Asdrubali - il mio le teorie che stanno dietro davanti all'immagine l'energia del seno e del colore non può essere problema teorico risolvibile in teoria e invece è uno stato interno della pittura pittura in atto che realizzando si sconvolge qualunque presupposti iniziale.

gianni asdrubali

AGGANCIO

Pittura industriale su tela
Anno 1986.

4. Dal controllo della superficie all'immagine eroica

Siamo in una fase in cui lo spazio è tutto pieno, il segno continua all'infinito, la stesura del colore è controllata, senza cedimenti, senza invettive, come si legge nella serie Nemico (1987), concentrata nel sogno di una geometria che sfugge all'occhio e non promette contemplazione ma solo sbilanciamento, vortice, dinamismo. Diciamo ancora che l'immagine è questione di spazio determinato dalla pittura in relazione con infiniti spazi possibili. L'occhio si muove lungo innumerevoli aggregazioni del segno-forma strutturante, sintetico, implacabile nell'organizzare la visione ed entro e oltre i margini in cui avviene la pittura, “nell’ipotetico punto di coincidenza tra rapidità dell'azione e stabilità dell'immagine”, come ha individuato Giovanni Accame in un dialogo con Asdrubali (1987). E’ questo il momento in cui l'artista si confronta più intensamente con il concetto di riduzione collegato alla libertà dello spirito geometrico che incanala le strutture spaziali in un continuum complesso ed elementare.

Che cosa significa? I principi formali di riduzione sono usati e tenuti come strumenti, non come fini, il fine è la pittura, il suo valore di immagine, di spazio aperto che comunica con le forze invisibili della parete, con la vastità del bianco rimasto ai margini, ma ben presente nella concezione totale dell'opera. Proprio la funzione magica del bianco dipinto, dipinto e non dipinto, torna in campo come mobilità percettiva, moto di dilatazione dell'immagine, non l'amputazione del segno destinato ad una maggiore libertà esecutiva. La dialettica tra bianco e nero si allontana dagli schemi ottico percettivi che hanno rischiato di condizionarla e ritrova la sua proiezione energetica nello spazio, una presenza fisica che mette in moto l'occhio facendolo volare sopra il peso delle cose.

Asdrubali si presenta alla Biennale di Venezia nel 1988 con Eroica ed è subito chiara la differenza tra il suo lavoro di sintesi espressiva e quello di altri giovani pittori alle prese con analoghi problemi di invenzione spaziale. La capacità di far entrare il bianco nella superficie rivela un impressionante controllo dei termini linguistici, dei minimi termini portati verso un massimo di tensione reciproca. Con la rinnovata presenza del bianco l’immagine respira, si fa trasparente, leggera ed inquieta, astratta e trasfigurata.

“Non ho mai pensato di fare un quadro astratto”, confessa Asdrubali ed in effetti nella sua pittura si congiungono diversi temperamenti messi in rapporto, in modo da essere un'unica cosa, da costruire l'energia unitaria della visione.

Sono possibilità astratte più che astrazione, momenti figurali di un dinamismo trascritto in puri rapporti di linee e di colori anche quando il colore è una zona virtuale sospesa tra il bianco e il nero. La superficie si carica di contrasti e di insidie, “l'urlo e una carezza, la certezza e il dilemma si confondono, sorgono e scompaiono in una continua affascinante palingenesi.” (Elizabeth Bozzi, 1988).

E’ importante riconoscere le diverse intensità del segno, i differenti modi di dipingere: l'automatismo, il flusso informale, la stesura piatta, le linee di contorno, il segno che cancella altri segni e si sovrappone al nero e al bianco, al colore. L’immagine si apre e si chiude in virtù di questi slittamenti interni la pittura diventa irresistibile perché mette molteplici punti di osservazione che la sollevano verso una costante vibrazione. Non c'è bisogno di altro. Il quadro si regge su un nulla, sul limite invisibile che ha stabilito tra la veloce peripezia dei segni-forza e il vuoto. Qui sta la condizione di soglia, ancora ben intuita da Menna, il luogo intermedio che coniuga nello stesso tempo ciò che appare e ciò che sta per sparire. Anche l'azione dell'artista è legata a questo limite appena misurabile, basta poco, una disattenzione, una mancanza di concentrazione e d'impulso vitale per far crollare l'immagine rovinando l'opera con gli stessi strumenti che invece volevano edificarla in modo assoluto.

gianni asdrubali

NEMICO

Pittura industriale su tela
Anno 1987

5. Nuove strategie del segno come forme della complessità

L’esperimento dei segni e delle forme prosegue senza tregua dalla situazione di Eroica fino alle recenti opere del 1989 e dei primi mesi del 1990, ancora più sciolte libere di ritagliarsi lo spazio idoneo all'accelerazione di nuovi ritmi. Il gesto non ha ansia di coprire la superficie ma è determinato dal suo sprofondamento, dallo spazio simbolico del bianco che smaterializza i riferimenti formali in una luce totale. Essa vibra e si espande a partire dai minimi fondamenti della visione. Ne ha parlato in modo esauriente Lorenzo Mango circa un anno fa: “Nella pittura di Asdrubali la luce è l'origine e destino. Origine perchè la condizione preliminare del segno, è la realtà più vera della sostanza del quadro. Il colore, il contrasto o anche l'evidenza schiacciante del bianco e del nero vivono perché funzioni della luce. D'altro canto la luce è anche il destino della pittura, perché la sua vocazione è a realizzare l'immagine non come contingenza concreta, come ombra o spessore ma secondo la trasparenza aurea della luce”. La sollecitazione del valore luminoso passa attraverso i vari modi di far pittura che il pittore esercita, come trattamento del colore, come strategia interna al lavoro invisibile sul sedimento dell'immagine. Le diverse presenze del segno ora accentuato ora magro e secco scuotono le figure astratte dal loro torpore compositivo, le forme inseguono un movimento che non è mai dato per certo tornano sul loro percorso chiudendo e aprendo la struttura senza interferenze. Il gesto si stacca dal segno nel punto giusto, l'energia della mano accompagna il colore da un massimo di consistenza ad un minimo di presenza fino a rendere scarno e stringato il tracciato.

Lavorando in turno a più tele e scorrimenti di linee l'artista sconfina dai propri automatismi inventando condizioni impreviste, disarticolate, libere di fluire con la stessa grazia e immediatezza dei disegni, fogli schizzati come voli di uno sguardo che si diverte ad uscire fuori dei propri limiti. I disegni di Asdrubali mantengono l'efficacia, l'impeto e l’impulso fisico delle ampie tele, sono esercizi che non progettano i grandi lavori ma sono interni alla loro concezione, momenti non secondari, attimi bruciati nel rapporto istantaneo con il foglio vuoto, opere autonome con uno spazio autonomo. E’ chiaro che le prove più convincenti Asdrubali riesce a darle in rapporto alla parete, ma è solo questione di una diversa necessità di energie e di azione sganciate o trattenute sul piano. “La pittura comincia in quella parte della superficie che io non tocco” ha scritto ancora l'artista, precisando che immagine dipinta è senza luogo e che il tempo è una possibilità di entrare nell'universo di questa immagine.

Le ultime opere sono la dimostrazione dell'assenza di riferimenti che le intenzioni del gesto solo in parte esprimono. La vita stessa non appartiene all'opera, la pittura è un veleno che vive delle proprie materie, un'arte senza soggetto, un'immagine che rassomiglia ai propri movimenti contrastanti. Le più recenti riflessioni di Asdrubali sono protese verso una radicale affermazione di rottura tra arte e vita, questo antico rapporto che l’avangiuardia si è illusa di saldare e a cui oggi rimane poco spazio di manovra.

“La distanza che separa l'opera dalla realtà e dalla vita non è pensabile; l'opera tanto più è vera tanto più è distante, tanto più è inumana. Tutto ciò che è umano non ha niente a che vedere con l'opera”. La pittura accentua, in questo distacco, la sua tensione interna, non ammette più passaggi intermedi, è una forza che si da nel momento in cui si svela e poi sparisce, si annulla. Viene fuori da sola, con la sua visibilità velenosa, presa da brividi del segno che rinviano all'infinito la dinamica della loro apparizione. Nell'attuale momento di sconforto nei confronti del dipingere al cospetto di un interesse per la commistione di mezzi e messaggi da parte del sistema artistico, la posizione di un artista come Asdrubali si pone nettamente al di là del gioco eclettico e interdisciplinare dei linguaggi per affermare di nuovo la centralità del pensiero pittorico. La ricerca dell'immagine come energia fondamentale della pittura non è questione di cui potersi velocemente liberare, è invece un corpo teso fino allo spasimo, il luogo essenziale che permette di trasformare rapidamente l'esperienza precaria del reale nelle forme più solide e durature dell’arte.

Claudio Cerritelli